testi critici

“La personalità di Elena Fabris può imporre al critico che s’interessa a lei un’enfasi di immaginazione che, già nel linguaggio, lo porti a fare proprie le ali portanti delle sue invenzioni e delle sue “meraviglie”. Mettendosi oltre la stupefatta fenomenologia del quadro, Elena Fabris è la prima ad inventarsi e rappresentare visioni con la provocazione e la sottile ironia che fa filtrare nella serie delle cartoline “Saluti da…” (Greetings from…). L’artista sa che le alluvioni portano catastrofi e che la forza distruttrice sconvolge la natura, ma Elena la usa in maniera “gentile” colorando l’acqua con lucidi smalti e costruendo mulinelli e increspamenti sospinti dalla forza della corrente dalla quale emergono presìdi simbolici della storia dell’uomo, disegnati con elegante asciuttezza ed espressività (dal Colosseo al duomo di Milano, dalla statua della Libertà a piazza San Marco). Raffinata disegnatrice, usa il pentagramma della musicalità grafica con una sapienza esecutrice tale da raggiungere voli altissimi nei personaggi che pullulano le acque delle sua alluvioni. Queste opere di forte impegno sono per Elena Fabris un punto d’approdo in cui confluiscono tutte le esperienze precedenti, le sue inquietudini culturali e sociologiche.”
(Prof. Tullio De Franco)

“Torrette di avvistamento che dominano spiagge deserte, figure serene e isolate che passeggiano su dorati bagnasciuga, mari dagli orizzonti bassi su cui, lente, planano nuvole monumentali: sono alcuni dei temi più frequenti delle opere di Elena Fabris. Immagini, memorie di viaggio catturate con la macchina fotografica, poi raccontate con la voce della pittura, che a ben vedere quasi mai si discostano dal “genere” del paesaggio e quando lo fanno si soffermano su piccoli scampoli di una quotidianità semplice, fatta di gesti abitudinari, naturali senza enfasi, ansie né patemi. I quadri della Fabris sembrano poco più che un pretesto per raccontare l’evidente solarità che le è propria e che si palesa nella luce che accende l’azzurro cristallino di cieli tersi, infiniti e profondissimi. La pittura diventa in tal modo quasi un espediente, tutto mentale, per tornare in quei luoghi ameni, ricostruirne la memoria o inventarli nuovamente, ripensarli col senno di poi, riviverli nella dimensione della tela con la leggerezza del pensiero. E l’assoluta mancanza di problematicità di questi lavori non tragga in inganno: il dramma del vivere è tanto più evidente in questi placidi dipinti quanto più sembra dissimulato da una quiete insistita o dalla rassicurante serenità di luoghi suggestivamente radiosi. Si sa: il Paradiso è l’ossessione degli spiriti inquieti”.
(Andrea Romoli Barberini)

“Dopo i fasti della Pop Art negli anni ’60, il diffondersi del Citazionismo a partire dalla fine degli anni ’70 e l’esplosione della Graffiti Art negli ’80, sui rapporti tra pittura e fumetto si è scritto moltissimo. Le prospettive dei diversi contributi naturalmente possono variare non poco oscillando in vario modo tra il teorico, il sociologico e il cronachistico, ma tutti, più o meno, ruotano attorno ad una medesima consapevolezza, l’attrazione degli artisti verso una pratica comunicativa popolare, come quella delle “streeps”, va letta sullo sfondo di una nuova dimensione urbana, nel contesto di una metropoli che da moderna si fa postmoderna e di una comunicazione che da biunivoca si fa monodirezionale e allargata. Sarà forse proprio per effetto di questo insistere sulla città e i suoi segnali, sui mass-media e le correlative icone, che quando pensiamo al fumetto in pittura tendiamo a pensare soprattutto ad una apparizione statica, ad un fermo immagine ingrandito, ad una sorta di ready-made estrapolato da un flusso di informazioni inarrestabile e stagliato su di un panorama impersonale o comunque fuori fuoco. Con il lavoro di Elena Fabris le cose non stanno così, nella sua pittura il fumetto non è prelevato e incollato è molto più semplicemente “agito”, chiamato a collaborare per raccontarci qualcosa, per animare una scena. Detto in altre parole è un acceleratore narrativo che partecipa alla determinazione del senso. Ma c’è di più, proprio perché agito, cioè assai più disegnato che ridisegnato, esso ritrova tutta una serie di contatti con alcune pratiche creative del settore “visivo” che troppo facilmente siamo portati a relegare in un ingiusto cono d’ombra, da quelle più tradizionali e private come lo schizzo sul tacquino d’appunti, ( del paesaggista o del viaggiatore ), a quelle più utilitarie e mirate come la bozzettistica scenografica e la grafica pubblicitaria. Viene così a crearsi una disponibilià al colloquio con il riguardante che, unendo la vivacità delle propensioni psicologiche dell’autrice ad un repertorio di immagini persuasive progressivamente collaudato, genera una dirompente casistica di possibili messaggi nei quali l’umorismo, l’ironia e l’autorironia si scambiano le parti, in un continuo gioco di rimandi, con riflessioni di respiro più ampio su tendenze e problemi di dimensione epocale. E’ il caso dei “Greetings from….”, una serie aperta di tele che, come autentiche cartoline, ci trasmettono un saluto dalle più ambite mete turistiche del pianeta mettendo in risalto questa o quella delle loro principali attrazioni: il Colosseo o Trinità dei Monti per Roma, il Duomo per Milano, la Statua della Libertà per New York, la Torre Pendente per Pisa e via dicendo. Il tutto, però, con un inquietante particolarità: le “emergenze” architettonico-artistiche in questione risultano essere delle “emergenze” nel senso letterale del termine, in quanto di esse vediamo, appunto, “emergere”, da una gran massa d’acqua, estesa a perdita d’occhio, la sola parte più alta. Inondazione? Tsunami? Castigo divino? Visione onirica? Qualcosa sembra escluderlo con decisione. Come su una qualsiasi spiaggia d’estate, infatti, tra i flutti in questione si svaga senza proccupazione alcuna la più completa casistica di bagnanti che ci sia mai stato dato di osservare nei depliant delle agenzie di viaggio. Chi si tuffa, chi nuota con il salvagente, chi va in canoa, chi fa il “morto a galla” chi raggiunge sgoccialante un’imprecisata riva davanti a noi, il tutto fra Monettiane ninfee che galleggiano in mezzo alla gente, coppie di aironi che si stagliano nel cielo e strani grumi di materia caramellosa che colano da ciò che resta di edifici e monumenti. A questo punto potremmo arrenderci e cedere anche noi al desiderio di non pensare, di immergerci nelle indaffarate gioie della vacanza, preoccupandoci solo di scegliere il sito più interessante e la compagnia più attraente; ma è proprio qui che scatta qualcosa: confrontando i luoghi e guardando le diverse scene più da vicino ci accorgiamo, dopo un po’, che le situazioni descritte non sono convincenti perché naturali o realistiche, ma, al contrario perché sapientemente costruite, perché ricombinate secondo invenzioni plastiche, anatomiche e dinamiche che si ripetono senza darlo a vedere, perché disegnate con mano impeccabile e sapiente piglio professionale; in altre parole perché rese stereotipe non attraverso la riduzione, il togliere, il semplificare, ma attraverso l’osservazione acuta, l’esattezza dei particolari, la notazione sensibilistica, lo sguardo penetrante e via dicendo…fermati, naturalmente, al punto giusto, sulla soglia del loro ribaltarsi in descrizione personalizzata, intimistica o, peggio ancora, liricizzata. Ecco allora che la metafora che aleggiava attorno a tutta l’operazione ma non si decideva a prender forma perde finalmente i suoi tratti vessatori e moralistici, scende dal piedistallo di un ecologismo catastrofista ed elitario e ci parla con un sentire pieno e partecipato. Quei bagnanti siamo noi ed è inutile provare a negarlo, li c’è tutta la nostra voglia di vivere e di stare insieme, ma ancora inficiata dall’individualismo e dal sospetto, ancora male indirizzata e incapace di trasmettersi a tutti in maniera ottimale e disinteressata. L’energia necessaria per salvare il mondo, ammesso che lo si possa ancora salvare, è la stessa che utilizziamo nel gioco e nell’amore, ma va liberata e rimessa a disposizione di tutti, va convogliata in una opera la cui coralità può essere garantita soltanto da una anlisi tecnica ineccepibile di dati e mezzi, un’analisi che rifiuti l’autocompiacimento umanistico e lo sostitiuisca con l’umanità vissuta, secondo la migliore tradizione mediterranea.” 
(Paolo Balmas)

“Many greetings from…Mi ricordo, le firmavamo così le cartoline di un tempo. Noi, gli italiani in vacanza, c’è stato un tempo che le cartoline le firmavamo così. Anni lontani. Si andava in vacanza e si mandavano cartoline: many greetings from... Come a sottolineare una dimestichezza con una lingua che, sempre di più, stava entrando nella quotidianità delle persone. Erano anni in cui chattare non esisteva ancora, i selfie si chiamavano autoscatto, le fiction sceneggiati e il check up visita di controllo. Ma questo non è un trattato sulla nostalgia, ma un testo critico per un’artista che, in fondo, sta parlando di questo. Mi spiego. Perché intitolare una mostra Many Greetings from…? Perché dipingere “monumenti celebri che emergono in città allagate da un magma indefinito?” Perché raffigurare gente che nuota non curante in un mare “che potrebbe essere sia il prodotto degli scarichi industriali più irresponsabili, che un liquido simbolico, oppure un fiume d’incoscienza e disinteresse che copre, e fa scomparire la bellezza?” Che cosa ci fanno “quelle persone che sguazzano indifferenti, non curanti della catastrofe che li circonda?” La risposta è che l’Italia, un tempo Colosseo e Ponte di Rialto, oggi è sempre più smartphone e selfie. L’Italia, un tempo Michelangelo e Caravaggio, oggi è sempre più Facebook, Twitter e Istagram. L’italia, un tempo lingua raffinata ed elegante, oggi è sempre più spread e tv on demand. Oh yes! È il mondo che cambia! E siamo tutti d’accordo. Lasciamoci trascinare dalle onde che arrivano dall’oriente e dai neologismi pop coniati dal web che parla inglese. Alla lingua francese non resta che il rien ne vas plus del casinò, e al tedesco le zimmer delle località turistiche zona nord Italia. Ma, nonostante questo, la nostalgia del passato galleggia ancora nel presente, resiste all’onda d’urto che giunge da oriente e ci travolge, è il nostro essere dentro il presente senza però dimenticare l’origine e quindi il punto di partenza; many greeting from… siamo noi quando un tempo spedivamo cartoline nei giorni di vacanza, noi italiani nel mondo, noi sempre a galla anche quando tutto sprofonda, noi col sorriso  mentre il pil non aumenta, noi senza industria pesante ma con il Pantheon e la cupola del Brunelleschi, noi che l’inglese lo parliamo un po’ come ci viene e il latino è una cosa da monumenti e chiese, noi immersi dentro un patrimonio artistico che il mondo ci invidia e che non sempre sappiamo valorizzare. Le cartoline, un tempo, si appendevano sul frigorifero e sulle pareti degli uffici, stavano lì, in bella vista, come prova del nostro nomadismo che, di tanto in tanto, ci portava, in giro per il mondo. Ma oggi che il selfie ha invaso gli smartphone di tutto il mondo, oggi che le cartoline non le scrive quasi più nessuno, a chi lasciare i nostri ricordi? I frigoriferi si lamentano. Le pareti degli uffici piangono. Se il digitale prende il sopravvento, quello che rischia di più è il ricordo. Se la musica è spotify e non più cd allineati sulla mensola; se le foto sono immagini conservate nella nuvola a più giga; se tutto si smaterializza, che fine fanno i ricordi? Che fine fanno i monumenti se il mare della modernità li travolge? Che fine fanno le nostre radici, e quindi la memoria -e dunque i ricordi- se un’alluvione li sommerge? Che cosa accade se nessuno più dipinge? A chi il compito di fermare un’immagine per sempre, se il supporto tecnologico su cui salviamo i nostri ricordi cambia? I lavori di Elena Fabris sono figli della società liquida di cui parlava Zygmut Bauman, dove l’unica “convinzione è che il cambiamento è l’unica cosa permanente e che l’incertezza è l‘unica certezza”. In questo mondo nuovo, liquido e galleggiante, il compito di un artista è quello di scrivere cartoline. Perché le opere d’arte altro non sono che cartoline spedite dagli artisti. Quindi, many greetings from Elena Fabris.”

(Carlo Vanoni)